Non siate iperprotettivi: lo stomaco ringrazia.

Abbiamo la radicata convinzione che il nostro stomaco debba essere protetto.
Pare incredibile che la gente abbia vissuto migliaia di anni senza il protettore gastrico. La gastrite, figlia dello stress o indotta da tutte le pastiglie che finiscono dentro il tartassato organo digestivo, deve essere curata a prescindere. Anzi, possibilmente prevenuta.
Con un’altra pastiglia.
Dobbiamo proteggere lo stomaco dai farmaci anti-infiammatori, dal cortisone, dallo stress operatorio di qualsiasi intervento chirurgico anche minimo, dall’ansia, dai cibi, dal fumo. Dobbiamo proteggere non soltanto lo stomaco, ma anche l’esofago dal reflusso, la laringe dall’acidità. Proteggere, proteggere, proteggere.
E sapete che c’è? Oggi lo possiamo fare facilmente e in maniera molto efficace.
Oggi, ma non da oggi, esistono i gastroprotettori. Sicuramente tra i farmaci più richiesti e prescritti nello studio del vostro medico di famiglia.
E funzionano.
I tempi in cui le ulcere gastriche si curavano con la chirurgia sono un ricordo.
Già nel lontano 1976, una curiosa famiglia di anti-istaminici creativi e fricchettoni si è riciclata come antiacido e anti-ulcera. Erano gli anti-H2, cugini degli antistaminici anti-H1, quelli che curano il raffreddore da fieno. La Cimetidina e poi la Ranitidina (ancora oggi in uso, anzi tornata di gran moda) hanno davvero cambiato le cose, nella terapia dell’ulcera gastrica.
Poi nella seconda metà dei favolosi anni ’80, sono arrivati i supereroi dal nome un po’ comico: gli inibitori di pompa (oggi è più trendy chiamarli PPI, meglio se con pronuncia all’inglese pi-pi-ài), l’Omeprazolo e i suoi figli e nipoti (Pantoprazolo, Rabeprazolo, Lansoprazolo, Esomeprazolo).
Queste due categorie di farmaci fanno una sola cosa, con meccanismi diversi: riducono la produzione di acido cloridrico da parte dello stomaco.

Oggi è molto à la page dichiararsi nemici giurati delle medicine e delle case farmaceutiche, ma queste categorie di farmaci sono tra gli esempi più lampanti di come “la chimica” possa cambiare la storia naturale di alcune malattie, che fino a ieri semplicemente non venivano curate o richiedevano interventi chirurgici complessi e pericolosi. Mio suocero, negli anni ’50 in America, ha rischiato la pelle e ha subìto una gastrectomia (gli hanno tolto lo stomaco) per quella che oggi sarebbe considerata una “banale” ulcera gastrica, curabile con un mese di PPI. Ma oggi, praticamente, le ulcere gastriche non le vediamo più.

Dunque, spezzata una lancia in favore delle ricerca scientifica (e non sarà l’ultima volta su questo blog) e dell’applicazione pratica dei frutti della stessa, eccomi però costretto a gettare acqua sul fuoco. Perché anche le cose che funzionano molto bene, possono funzionare… troppo bene. Così bene che creano un esercito di entusiasti consumatori ai quali bisogna imporre un altolà.
“Troppo di una cosa buona fa una cosa cattiva”, Diceva Po in “Kung-fu Panda”.

Per prima cosa, se i PPI (che in questo sono più bravi degli anti-H2) riducono forzatamente la produzione di acido nello stomaco e soprattutto se lo fanno per lungo tempo (mesi o anni), lo stomaco, a cui è stato insegnato che gli acidi li deve produrre per digerire i cibi, compensa questa forzata riduzione con una forzata produzione. Risultato: i farmaci anti-acido perdono in parte di efficacia, ma soprattutto appena smettete di prenderli si scatena un violento effetto-rimbalzo: tutto l’acido che lo stomaco produceva in più vi garantirà un’immediato peggioramento dei sintomi. Non potrete più fare a meno del farmaco. Al primo tentativo di sospenderlo, fuoco e fiamme.

In secondo luogo, quando un farmaco funziona così bene e per una patologia così diffusa, viene utilizzato da un enorme numero di persone e finisce prima o poi per incappare in qualche incidente di percorso, principalmente perché un campione così grande di utilizzatori consente di studiarne gli effetti con notevole dettaglio e si scopre che persino farmaci tanto ben tollerati (nella mia carriera non credo di aver mai avuto a che fare con un paziente che abbia avuto effetti collaterali significativi) possono fare danni se usati troppo.
Non è una grande scoperta, in fondo. Tutti i farmaci sono potenzialmente dei veleni. E persino la toma grassa e il tiramisù fanno malissimo, se si esagera.
Tuttavia alcune cose credo che le dobbiate sapere.

Tanto per cominciare, capirete da quanto detto sopra che se l’acido cloridrico è così importante per la digestione (e quindi l’assorbimento) di certi alimenti, ridurne la quantità ha i suoi effetti. Anche se qui si parla di ridurre la quantità di acido in eccesso, tuttavia con l’uso dei PPI sono stati descritti una diminuzione dell’assorbimento della vitamina B12 , del ferro e del magnesio (cliccate sui link per il riferimento bibliografico).
L’alterazione dell’assorbimento del calcio porterebbe a un aumentato rischio di fratture ossee, anche se con un meccanismo non ancora definito.
L’aumento di rischio di infezioni intestinali da Clostridium Difficile in ambiente ospedaliero è stato ridimensionato da un più recente studio  pubblicato sull’American Journal of Gastroenterology.
L’aumento di rischio di polmonite è stato in parte contestato da studi successivi.
L’aumentato rischio di infarto  in realtà sarebbe suggerito da uno studio osservazionale molto ampio ma poco affidabile.
L’aumento del rischio di M. Di Alzheimer è altrettanto discusso: uno studio importante del 2016 pubblicato su JAMA Neurology  sembrava darlo per certo, ma studi successivi, pubblicati su Gastroenterology e sul Journal of American Geriatric Society  sembrano contraddire l’assunto e quindi su questo punto non vi dò certezze. Resta il fatto che l’attenzione della comunità scientifica su questo problema è molto alta.
L’aumento di incidenza di insufficienza renale sembra confermato.
L’aumentato rischio di sviluppare cancro gastrico, pare dovuto alla gastrite atrofica sviluppata a seguito della potente inibizione della secrezione acida anche in assenza di infezione da Helicobacter, anche se uno studio successivo su pantoprazolo sembrerebbe ridimensionare il problema.
E per finire, uno studio pubblicato dal British Medical Journal nel luglio 2017 dimostrerebbe un aumento del 25% del rischio di morte per ogni causa tra gli utilizzatori di PPI. È uno studio osservazionale, cioè basato sull’osservazione di grandi numeri di pazienti nel passato, dove l’inghippo sta in quel “per ogni causa”, che naturalmente è ben lontano dallo stabilire un rapporto di causa-effetto tra i PPI e la morte dei pazienti, quindi va preso con moltissima cautela e non interpretato alla lettera.

Tutto questo sfoggio di erudizione per dire che nessuno studio scientifico, da solo, può trovare la verità: servono lavori di conferma, approcci diversi al problema e solo quando un numero consistente di studi ben progettati convergono su un’evidenza, questa può essere trasferita alla pratica clinica.
D’altro canto, possiamo dire che il proliferare di studi critici sull’uso indiscriminato di PPI, anche qualora non dimostrasse definitivamente una loro immediata pericolosità, deve quanto meno allarmare. La quantità di gastroprotettori prescritti ai giorni nostri è probabilmente troppo elevata rispetto alle reali indicazioni per il loro uso e l’innocuità a lungo termine è tutta da dimostrare.

Tanto è vero che l’Agenzia Italiana per il Farmaco (AIFA), che detta legge in materia, pone limiti restrittivi alla prescrivibilità a carico del Sistema Sanitario di questi farmaci (cioè alla loro cosiddetta “mutuabilità”). Detto brutalmente, se volete prendere PPI contro ogni evidenza di utilità, potete farlo, ma il farmaco lo pagate per intero (dovete sapere che oggi ci sono delle formulazioni di PPI che si vendono anche senza ricetta medica – il mercato sa dove pescare, quando si tratta di fare cassa).
Per curiosità, di seguito vi propongo due diagrammi di flusso che noi medici dobbiamo tenere a mente ogni volta che prescriviamo un PPI quando mettiamo sulla ricetta la famigerata nota ministeriale, un numero che dimostra che stiamo prescrivendolo per una precisa ragione (le note ministeriali in tema di PPI sono due, la numero 1 e la numero 48).
Se avrete voglia di seguire lo schema, scoprirete che l’uso di PPI per periodi superiori a un mese (e comunque da ricontrollare dopo un anno) è riservato a pochi casi selezionati.

In sintesi, avrete motivo di usare per più di un mese di fila i PPI solo se:

  • prendete anti-infiammatori praticamente di continuo per gravi malattie reumatiche o artrosiche;
  • prendete aspirina a basse dosi per “fluidificare” il sangue e avete più di 65 anni;
  • avete una malattia da reflusso gastroesofageo recidiva (cosa tutt’altro che facile da dimostrare nella realtà).

In tutti gli altri casi, dovrete ridurre il dosaggio (gradualmente!) fino a sospenderli, usare altre medicine in sostituzione (come gli antiacidi “di superficie” tipo il Maalox), modificare abitudini alimentari o di vita, evitare anti-infiammatori non indispensabili o… dare un po’ di respiro al vostro sistema nervoso.

Tutto questo per spiegarvi la mia faccia perplessa alla richiesta di prescrizione della millesima scatola di “protettore” gastrico.
Se la sala d’aspetto non sarà troppo piena, se non saranno gli ultimi tre minuti prima della chiusura (o magari già i 30 minuti dopo la fine dell’orario), se non avrò qualche situazione più grave in attesa, se non dovrò ancora rispondere a 10 mail e a 7 Whatsapp, se non squillerà il telefono proprio in quel momento… proverò a spiegarvi con calma tutto questo quando vedrò che prendete Omeprazolo da 5 anni senza apparente motivo. Altrimenti, spero che abbiate letto questo articolo e capiate al volo perché cercherò disperatamente di prescrivervi una dose ridotta di PPI.

Festa

Della liberazione. Dunque, oggi ambulatori chiusi, e ieri (ahimè) come sempre nei giorni prefestivi, ambulatori aperti solo alla mattina. Nel pomeriggio, qualche visita a domicilio, per non perdere l’allenamento, ma ambulatorio chiuso a Oulx.

Ricordo che quando gli ambulatori sono chiusi per festività, è sempre attivo il servizio di Guarda Medica (tel. 800 508 745).

E visto che ci siamo, approfitto per ricordare che il 1º maggio, martedì prossimo, è ancora festivo, quindi ambulatori chiusi e Guardia Medica. E di conseguenza lunedì (prefestivo) ambulatorio aperto solo al mattino, a Oulx. Da tutto ciò si può dedurre che… non faccio il ponte del primo maggio.

È tutto, per le comunicazioni di servizio.

In arrivo invece succulento articolo sui farmaci gastroprotettori, dove scoprirete un paio di cose interessanti che probabilmente non vi aspettavate. Rimanete sintonizzati!

Il test che non c’è

3F9E28CD-B7C6-49DF-AC13-CE15B520C803Come posso essere il più esplicito e sintetico possibile? Il test per le intolleranze alimentari non esiste.
O meglio, non esiste UN test che individui in colpo solo le vostre intolleranze alimentari. Esiste invece un percorso fatto di numerosi consulti specialistici ed esami che possono portare, dopo un viaggio lungo e talvolta frustrante, a individuare uno o più alimenti che dovete evitare.

Il problema, come sempre, nasce quando qualcuno pretende di trovare una soluzione semplice e apparentemente miracolosa a problemi molto complessi. E quella soluzione la mette in vendita.
Alcuni istituti seri, come l’Humanitas, vi propongono un “test per le intolleranze”, che non è affatto UN test, ma (come ben specificato sulla loro pagina in proposito) è un approccio complesso e interdisciplinare al problema.

I test da “una botta e via” sono invece elencati in una pubblicazione della Federazione degli Ordini dei Medici, che trovate anche gratuitamente come e-book su Amazon, redatta insieme a tre società scientifiche di Allergologia. Ebbene quei test sono sonoramente bocciati. Hanno “la stessa affidabilità del lancio di una monetina” e dànno 9 volte su 10 un risultato positivo solo per confortare il paziente.
Questi test inutili sono:
il test del capello (e quello sulle cellule del sangue);
il test della forza (che pretende di individuare l’alimento nocivo se riduce la forza muscolare manipolandolo);
Il Vega-test (il paziente tiene in mano un elettrodo negativo, collegato a un circuito al quale si applica l’alimento, e viene toccato con l’elettrodo positivo);
– la Biorisonanza (le variazioni indotte nel campo magnetico del paziente da alimenti supposti nocivi sono valutate da un computer);
il Pulse-test (riflesso cardiaco auricolare, che valuta le alterazioni della frequenza cardiaca ponendo il paziente a contatto con l’alimento sospetto).

Questo, per me, mette la parola FINE a tutte le discussioni sulla possibilità di individuare miracolosamente, in un colpo solo, le sostanze che, una volta mangiate, vi provocano tutti quegli strani sintomi.
Ma posso dirvi di più.

Un bell’articolo della Dr.ssa F. Puggioni cita uno studio della Siaaic (Società italiana di Allergologia Asma e Immunologia clinica) e chiarisce (riporto testualmente): “Le allergie alimentari interessano oltre 2 milioni di italiani, tra cui 600mila bambini, mentre le intolleranze alimentari sono un problema per 10 milioni. Sono 8 milioni invece, sottolineano gli esperti, le persone che pensano di avere un problema simile con il cibo spinte da condizionamenti o suggestioni psicologiche, circa il 25%, ma in realtà a soffrirne è solo il 4,5% degli adulti e il 5-10% dei bambini”.
Otto milioni pensano di avere un problema col cibo, ma solo il 4,5% ne soffrono veramente.

Capite allora che il problema è molto sfaccettato.
Come minimo dobbiamo individuare tre categorie di pazienti:
– quelli che hanno una allergia alimentare (meccanismo che coinvolge il sistema immunitario, come le allergie ai pollini);
– quelli che hanno una intolleranza alimentare (il sistema immunitario non c’entra: devono evitare certi cibi perché il loro organismo non ha i mezzi per digerirli, di solito perché sono carenti di qualche enzima digestivo, per esempio la lattasi per il lattosio);
– e… quelli che non hanno alcun problema con i cibi, ma credono di averne (intendiamoci, non si tratta di persone che “si inventano” i sintomi, solo che i loro sintomi non sono dovuti a quello che mangiano o, per lo meno, non a certi cibi particolari).

Allora, quello che spiego spesso a chi mi chiede di “fare il test per le intolleranze alimentari” perché ha disturbi intestinali continui, vaghi, inspiegabili, irrisolvibili, o perché ha disturbi ancora più vaghi, neanche solo intestinali (stanchezza, malessere generale, mal di testa persistente, dimagrimento, eccetera), è che la strada per individuare le cause dei suoi mali non è rapida né unica. Parte di solito da una visita Allergologica (o Gastroenterologica) e porta all’esecuzione di una serie di test allergici, esami del sangue, delle feci, fino addirittura a esami endoscopici (gastroscopia, colonscopia) che solo piuttosto raramente portano a una diagnosi di allergia o intolleranza alimentare a sostanze specifiche.

Se questo è chiaro, e non ci si aspetta soluzioni prèt-à-porter dalla medicina, allora si può individuare e concordare un percorso di studio che richiede pazienza e costanza e anche la consapevolezza che è possibile arrivare a una “non diagnosi”, cioè all’esclusione di molte (se non tutte) le patologie gravi e alla necessità di convivere, non senza l’aiuto di terapie sintomatiche, con uno stato che non è di “malattia” ma di “salute imperfetta”.
Il che, alla fine, se ci pensate bene, è la cosa migliore che ci possiamo augurare col passare degli anni.

[Mi riservo di parlare del problema del GLUTINE in un prossimo post, perché l’argomento ha bisogno di un po’ di spazio, anche se di fatto il problema rientra tra quelli qui accennati].

D come “dubbi”

Identikit-della-vitamina-D_previewimageQuanta vitamina D ci serve per godere di buona salute? La domanda sembra semplice e la risposta dovrebbe esserlo altrettanto, ma negli ultimi anni si sono verificati due processi paralleli, che complicano notevolmente le cose.
1. I valori di riferimento per la “normalità” del dosaggio della vitamina D hanno fluttuato in maniera piuttosto bizzarra;
2. La Vitamina D è diventata pane per i denti di chi sospetta oscure trame a danno dei pazienti e a favore di quell’incarnazione del maligno che sono diventate le case farmaceutiche.
I due fattori costituiscono, come facilmente immaginabile, una miscela esplosiva.

Una bella ricostruzione storica della misurazione dei valori normali della Vitamina D nel sangue, a partire dagli anni ’70 l’ho trovata in questo articolo, al quale vi rimando per i dettagli.
Vi basti sapere qui che i valori raccomandati, perché sono quelli che si riscontrano nella grandissima maggioranza degli adulti sani, negli anni sono variati di qualche unità, definendosi una carenza di Vitamina D per valori al di sotto dei 12 e poi dei 20 ng/ml (nanogrammi/millilitro). A complicare ulteriormente le cose, gli stessi valori si possono esprimere anche in nanomoli/litro, e in questo caso i numeri variano tra 30 e 50.
Quindi, memorizzate: valori normali sopra ai 12 (come indicato negli anni ’70) e fino ai 20 (come indicato nel 2011) ng/ml. Al di sotto di quei valori, carenza.

Queste non sono “ipotesi”: sono valori reali misurati in un numero molto alto di persone, quindi sono obiettivi e verificabili. Come dovrebbe essere il metodo scientifico.
Ma attenzione: questi sono valori normali in gente sana (e per questo motivo costituiscono un riferimento). Alcune persone, per alcuni specifici motivi di salute (per esempio perché hanno l’osteoporosi) hanno bisogno di un apporto di Vitamina D molto maggiore, per periodi di tempo più o meno lunghi.

E questo genera almeno una parte del problema: i valori indicati da alcuni studiosi per la cura di alcune malattie (malattie, non soggetti sani), che sono valori più alti del normale, sono stati a volte erroneamente indicati come valori di riferimento normali. Ne deriva che in questa prospettiva un grandissimo numero di persone (quasi tutti…) risulterebbero “carenti” di Vitamina D pur avendo nel sangue valori corrispondenti a quelli di qualunque essere umano sano.

Non sono in grado di commentare con cognizione di causa il termine “erroneamente” e tanto meno di interpretarlo. Come si può incorrere in tale errore? Io, che penso sempre bene, semplifico considerando che siamo umani, quindi soggetti ad errore.
Ma ci sono quelli che, se non pensano male, almeno sono guardinghi, e ricordano come il mercato degli integratori alimentari valga, particolarmente in Italia, cifre a sei zeri.
Sull’altra sponda (e veniamo al punto 2) ci sono, agguerritissimi, i nemici giurati delle case farmaceutiche. Che dicono esattamente l’opposto: esiste una congiura dell’industria farmaceutica che vuole nascondere una carenza generalizzata di Vitamina D, perché la Vitamina D salva da uno spropositato numero di malattie (cancro fra tutte!) e quindi se semplicemente la popolazione mondiale avesse valori più alti di Vitamina D nell’organismo, le case farmaceutiche perderebbero miliardi.

Io non commento, ma (a parte la semplice considerazione che per le case farmaceutiche è uno scherzetto produrre Vitamina D da vendere a miliardi di persone, con profitti immaginabili, piuttosto che investire in ricerca per farmaci innovativi da usare su un numero infinitamente più ristretto di persone) lascio risuonare nelle vostre teste le due posizioni: giudicate voi quale vi pare la più ragionevole.

[Ricordando solo un particolare: gli studi che attribuiscono proprietà taumaturgiche multiple alla Vitamina D sono studi “osservazionali“, cioè (spero di farmi capire) guardano indietro e collegano eventi diversi cercando rapporti significativi, eventualmente di causa-effetto.
Invece, oggi, gli studi scientifici che vengono considerati utili alla comunità, sono studi “prospettici“, cioè che guardano avanti, e non indietro: sono studi che creano le condizioni per verificare un’ipotesi: per sapere se la sostanza A fa bene per la malattia B, prendo un certo numero (possibilmente molto elevato) di pazienti e, senza che né il medico che somministra la sostanza, né il paziente che la assume sappiano in quale ramo dello studio stanno operando (metodica chiamata “in doppio cieco”), ad alcuni pazienti somministro effettivamente la sostanza ad altri no. Poi guardo i risultati e traggo le conclusioni.
È una situazione molto più controllata e rigorosa di quella che verifica solo certe circostanze prese nel gran calderone degli eventi passati: posso anche pretendere di dimostrare che molti pazienti affetti da cancro avevano tassi di Vitamina D non elevati, ma capite bene che è ben diverso dal dimostrare che tra i due eventi c’è un rapporto di causa-effetto.
Altrimenti (perdonate la grossolana semplificazione e la boutade) è come dimostrare che mettere le magliette rosse fa venire il cancro perché tra i pazienti affetti da cancro scopro che la maggior parte portavano magliette rosse. O peggio ancora: pretendere di dimostrare che le magliette verdi “curano” il cancro perché la maggioranza delle persone guarite dal cancro indossava di preferenza il verde].

Che dire, dunque, su questa “epidemia” di carenza di Vitamina D?
Io posso solo suggerire prudenza e buon senso.
E riassumendo direi:

  • non ha senso dosare la Vitamina D in soggetti perfettamente sani.
  • Non ha senso somministrare Vitamina D per valori limite (che variano a seconda dei laboratori, ma i cui estremi ho riportato sopra).
  • La Vitamina D serve sicuramente per fissare il calcio nelle ossa e quindi va certamente data a persone che hanno problemi in tal senso (donne in menopausa, persone affette da alterazioni endocrinologhe precise che alterano il metabolismo del Calcio).
  • Ma soprattutto non ha senso attribuire proprietà salvifiche a certe sostanze per la cura di mille malattie sulla base di studi osservazionali.

    Se siete multimediali, guardate questa breve intervista a uno specialista endocrinologo: esprime una posizione equilibrata e chiara.

Ma allora che faccio se lo specialista mi ha chiesto di dosare la Vitamina D ma non ho nessun problema di salute?
Come sempre, usate il buon senso, il cervello e… il vostro medico di famiglia, che magari non ha vinto il Nobel per la scienza, ma che (non per meriti suoi, ma perché così funziona il suo mestiere) è specializzassimo nel fare la sintesi tra mille fonti, scremare per quanto possibile l’informazione scientifica dalla fuffa, e tradurre tutto ciò in quello che è il meglio per la gente che cura (che conosce in prima persona meglio di qualunque specialista). Lui sa inserire nel mondo reale l’uragano di suggestioni che gli vorticano sulla testa quando cerca di aggiornarsi e di informarsi.
Chiedete, fidatevi di lui e magari non date per scontato che il vostro medico di famiglia trascriva acriticamente, automaticamente, supinamente, ogni e qualunque suggerimento che arriva da qualunque specialista, cosa che lo fa piuttosto arrabbiare.
Almeno, parliamone.

5 cose che non posso fare

Trovate la versione estesa dell’articolo a questo link.
Qui di seguito una sintesi, per chi è di fretta.

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Mille cose può fare per voi il vostro medico di famiglia, ma ce ne sono alcune (poche ma importanti) che proprio non può fare per legge. Evitando di chiederle eviterete di farvele negare e, oltre a permettere al medico di lavorare meglio, vi farete voler bene.

1. I CERTIFICATI PER TELEFONO. Il medico non può fare un certificato di malattia senza vedervi di persona. Il fatto che il certificato venga trasmesso telematicamente all’INPS, e che il malato possa comunicare il numero di protocollo al datore di lavoro (anche se di fatto semplifica molto la procedura e potrebbe evitare il contatto fisico tra medico e paziente) non cambia le cose.

2. I CERTIFICATI PER IERI (O PER DOMANI). Da quanto detto sopra, deriva che io devo rilasciare un certificato nel giorno in cui constato l’impossibilità di lavorare. Se il paziente era ammalato ieri e non è andato a lavorare (ma oggi ci è andato), non posso fare più nulla. Ieri io non ho potuto constatare lo stato di malattia. Quindi il certificato non si può fare. La giornata lavorativa di ieri è persa.
[A margine, vi prego di memorizzare il seguente concetto (e di ripeterlo tutte le sere prima di dormire): non si rilasciano MAI, per nessun motivo al mondo, certificati con data diversa da quella in cui vengono redatti. Mai].

3. LE PRESCRIZIONI DI FARMACI PER “FARE LA SCORTA”. Che sia per un lungo soggiorno all’estero, o perché avete una casa al mare, una in montagna e una al lago e volete riempire i relativi armadietti di medicinali, il medico non può prescrivere terapie per più di due mesi. Altrimenti diventa un medico “iperprescrittore” e può essere sanzionato.
È molto più di una consuetudine: è una legge.

4. PRESCRIVERE “TUTTI GLI ESAMI” PER UN CONTROLLO. Tenete a mente che:
A) – il medico è tenuto alla cosiddetta APPROPRIATEZZA PRESCRITTIVA (cioè prescrivere solo quello che è appropriato per quella precisa condizione di malattia) che non è un vago concetto etico, ma un preciso obbligo, che se non rispettato viene pesantemente sanzionato.
B) – Gli esami si richiedono quando c’è una precisa indicazione (una malattia da controllare o dei sintomi precisi), anche se in certi casi si possono prescrivere in soggetti del tutto sani per individuare fattori di rischio particolari (es. la mammografia periodica, il PAP test, la ricerca del sangue occulto nelle feci, eccetera).
Se volete fare esami “per controllo” in assoluto benessere, vi consiglio di donare il sangue. Diventando donatori AVIS, oltre a rendervi utili, avrete un set di esami periodici gratuiti ogni volta che donate e potrete usufruire di esenzione ticket per alcuni accertamenti. Fantastico, no?

5. FARE CERTIFICATI COMPIACENTI. Cioè fare un certificato scrivendo non quello che il medico constata realmente, ma quello che… gli si chiede di scrivere. È un po’ il comune sentire che si possa ricorrere al certificato medico quando proprio non si sa più dove sbattere la testa, per ottenere piccoli o grandi benefici che altrimenti non si potrebbero avere. Non funziona così.
Se da una parte il medico non può rifiutare il certificato che gli viene richiesto, dall’altra può certificare solo quello che constata direttamente. Il certificato medico è tenuto in alta considerazione proprio perché al medico si riconosce una grande autorevolezza quando accerta le condizioni di salute di una persona. Questo è un bene e tutela l’ammalato, ma la grande “forza” del certificato medico non deve essere usata con leggerezza.
Come diceva Spiderman: “da un grande potere derivano grandi responsabilità”.

Colesterolo: per essere pratici

dieta-colesteroloSull’importanza del colesterolo nell’aumentare il rischio di malattie cardiovascolari si potrebbero scrivere enciclopedie.

Invece, scrivo pochissimo e allego semplicemente dei suggerimenti per una corretta alimentazione. Sono sufficientemente sintetici e chiari da non confondere le idee sulle cose da mangiare e quelle da evitare.

Ricordate anche che il vostro medico, quando il colesterolo è alto, prima di prescrivere dei farmaci pretenderà che seguiate una corretta alimentazione per almeno 3 mesi.

Cliccate sul link sottostante per ottenere il documento in formato PDF:

DIETA per COLESTEROLO

Buon appetito!

(Per questo schema, da me leggermente modificato, ringrazio il sito Educazione Nutrizionale Grana Padano, che anche se può sembrare una cosa pubblicitaria – e non sono pagato per segnalarlo! – è invece un sito fatto piuttosto bene sui temi della buona alimentazione e dei corretti stili di vita).

Testamento biologico (aggiornamento)

La legge sul testamento biologico “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 16 gennaio, quindi è legge a tutti gli effetti.

A questo link un articolo di Quotidiano Sanità che spiega nel dettaglio gli articoli di legge.

Si, l’ho già fatto io, ma Quotidiano Sanità è più dettagliato. Per quelli che spaccano il capello in quattro.

Testamento biologico in 6 mosse

Testamento biologicoSollecitato dalla richiesta di un assistito, ho cercato di mettere insieme in modo (spero) comprensibile le notizie utili in tema di Testamento Biologico. Chi ha fretta, salti subito al punto 6, le buone notizie. Per i più curiosi, qualche informazione in più.

1. E’ legge dello stato

Il 14 dicembre 2017 è stata definitivamente approvata la cosiddetta Legge sul Testamento biologico (che entrerà in vigore solo dopo pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, presumibilmente nella seconda metà di gennaio 2018).
Si noti che il diritto all’interruzione delle terapie, anche la nutrizione e l’idratazione parenterale (endovena), era già stato riconosciuto per via giurisprudenziale, cioè in seguito alle sentenze del tribunale; ora è esteso a tutti, per legge.

2. Una legge molto concisa

La legge in realtà si chiama “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento“. Sono otto articoli, che trattano diversi e importanti argomenti:
– il consenso informato, cioè il diritto della persona a conoscere le proprie condizioni di salute e i trattamenti cui è sottoposto, e dunque anche il diritto a rifiutarli, e i conseguenti doveri del medico (Articolo 1);
– il divieto di “ostinazione irragionevole nelle cure e la dignità del fine vita (Articolo 2);
– l’applicazione degli stessi diritti alle persone minori o incapaci (Articolo 3);
– le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT), il vero e proprio “Testamento biologico” (Articolo 4);
– la cosiddetta Pianificazione Condivisa delle Cure, una sorta di “patto” terapeutico esplicito tra paziente e medico al quale i curanti sono obbligati ad attenersi in caso di malattia cronica o inesorabilmente evolutiva (Articolo 5).
Seguono norme transitorie, clausole di invarianza finanziaria, obbligo di relazione annuale alle Camere da parte del Ministro della Salute (articoli 6, 7 e 8).

3. Testamento Biologico: come?

L’Italia si è messa al passo con gli altri paesi UE (eccetto l’Irlanda): chi è interessato a esprimere da subito le proprie intenzioni rispetto alle cure che gli verranno somministrate quando non potrà più farlo di persona, può mettere per iscritto “le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari” (Articolo 4, comma 1). Le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT), appunto.
Può scriverle di suo pugno, o più semplicemente utilizzare uno dei modelli di DAT disponibili in rete: quello proposto dalla Associazione Luca Coscioni mi è parso il più completo, potete richiederlo a questo link , invece a questo  trovate quello della fondazione Veronesi, ma ce ne sono anche di più semplici (basta fare una ricerca su Google digitando “DAT” o “testamento biologico”).
Le DAT possono essere un atto pubblico (un documento redatto da un pubblico ufficiale o da un notaio, cioè “scritto” dal notaio con certi formalismi) o una scrittura privata (cioè un documento “scritto” dal privato cittadino – la scrittura privata deve essere autenticata firmandola in presenza del notaio o di un pubblico ufficiale, per esempio l’ufficiale di stato civile del Comune).

4. Testamento Biologico: dove?

Cosa fare di questo scritto?
In tutta franchezza, non ho trovato indicazioni molto precise. A rigore, l’articolo 4, comma 6 non dice che il documento debba essere consegnato a qualcuno. Dice che può essere un atto pubblico, oppure una scrittura privata, oppure che può essere consegnato personalmente in Comune.
Chiaramente se è depositato presso l’Ufficiale dello Stato Civile del Comune e annotato su apposito registro, è disponibile per la consultazione e, quando servisse, tutti saprebbero dov’è. Diversamente, ha comunque valore legale (se atto pubblico o scrittura privata autenticata), ma è chiaro che se rimane in fondo a un cassetto e nessuno lo sa, diventa difficile applicarlo al momento buono.
La legge dice che le DAT possono anche essere depositate presso “le strutture sanitarie, ma al momento non ho notizia di disponibilità in tal senso da parte della ASL. Appena ne verrò a conoscenza, vi informerò.

5. Il Fiduciario

Tenete presente che c’è almeno una persona che deve per forza sapere delle vostre DAT, e cioè il fiduciario, la persona da voi indicata come incaricata di mantenere i rapporti con i medici quando lui non potrà più farlo.
Noto, per inciso, che il fiduciario potrebbe anche non essere espresso nelle DAT, oppure essere a sua volta incapace o deceduto, o aver rinunciato all’incarico: non per questo le DAT perdono valore (Articolo 4, comma 4).

6. Le buone notizie

Resta il fatto che consegnare le DAT in Comune rimane la procedura più rapida ed economica (le DAT “sono esenti dall’obbligo di registrazione, dall’imposta di bollo e da qualsiasi altro tributo, imposta, diritto e tassa” – Art. 4 comma 6).
E alla fine di tutto, la buona notizia è che a Oulx il registro è stato attivato, per inciso ancora prima che la legge sul testamento biologico fosse realtà (delibera di Consiglio Comunale 10 marzo 2016).
Che fare allora, se volete esprimere le vostre Disposizioni Anticipate di Trattamento?
In poche parole, scrivete le vostre DAT (eventualmente con l’aiuto di internet), andate all’Anagrafe del Comune di Oulx e lì firmate il documento e depositatelo per l’annotazione sul registro. Fine.
Naturalmente, per sapere se nel vostro Comune è stato attivato il registro DAT, basta una telefonata in Anagrafe.

IMPORTANTE: nuovi orari

NOVITA’ IMPORTANTE: da VENERDI’ 12 gennaio 2018, per migliorare la disponibilità, per avere meno fretta, per organizzare meglio le giornate, cambierò completamente (o quasi) gli orari degli ambulatori. Faccio notare che questo venerdì saranno già in vigore i nuovi orari, ma d’altro canto il venerdì è… l’unico giorno in cui gli orari, di fatto, non cambiano!
Sulla Home-page trovate già, fissi e immutabili, i nuovi orari, così da poterli consultare quando volete. Qui sotto, una tabella riassuntiva per iniziare a prendere confidenza con le novità.

Orari

A molti basterà questo.

Per i più curiosi, dirò che con questa nuova disposizione ho cercato di evitare ambulatori in coda uno all’altro, in modo da non dover lavorare con la mente al prossimo ambulatorio e la fretta di finire. Inoltre ho inserito due giorni di visite su appuntamento a Oulx, cosa resa possibile dalla disponibilità di personale di segreteria.
So che la cosa potrà creare confusione e qualche iniziale disappunto, e me ne scuso, ma vi assicuro che il tutto è stato organizzato per fornire un servizio migliore e migliori condizioni di lavoro, il che giova sia a me che voi.
Ho cercato di avvisare tutti gli assistiti dei quali ho il numero di telefono, contando anche sul vostro aiuto per diffondere il più possibile tra contatti e amici i nuovi orari. Grazie per la collaborazione.

Il mistero del prefestivo

Comincio subito con un post di pubblica utilità. Avrete notato che oggi gli ambulatori sono chiusi.

Sbollita la rabbia e smadonnato il giusto, vorrete forse sapere perché.

Ebbene, una lontana legge dell’Età Oscura [che poi sarebbe l’Accordo Collettivo Nazionale per la Medicina Generale, che è una legge lontana non solo metaforicamente, visto che è scaduta da anni e non si riesce a rinnovarla, ma di questo vi narrerò in altra circostanza…], questa legge dell’Età Oscura, dicevo, recita che nei giorni prefestivi gli ambulatori restano aperti solo se sono di mattina; quelli del pomeriggio sono chiusi.

Il che garantisce a noi privilegiatissimi medici di base di anticipare il dì di festa con un pomeriggio di ozio.

Ma non ci esonera dal fare visite a domicilio anche di pomeriggio, se richieste al mattino. Esattamente come farò io oggi, salendo a Cesana per una colica renale che non vuole saperne di prefestivi, festivi e accordi nazionali.

Meno male che stamattina, invece, sono salito al Cels (sopra Exilles) per un altro caso interessante. Come mostra la foto: nebbia, odore di fumo, strade strette e tetti di losa, legno e acqua. Un autunno in gennaio, suggestivo e intimo.

Non tutte le domiciliari vengono per nuocere.